RERUM
NOVARUM
LETTERA ENCICLICA DI
S.S. LEONE XIII
INTRODUZIONE
Motivo dell'enciclica: la questione operaia
1. L'ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare
i popoli, doveva naturalmente dall'ordine politico passare nell'ordine
simile dell'economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti
e i nuovi metodi dell'industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai;
l'essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la
povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici
più vivo, e l'unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con
l'aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto.
Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida
aspettazione e affatica l'ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti,
le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei
principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi
il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a
bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche
sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli
Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere
errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli
stessi motivi sulla questione operaia. Trattammo già questa materia, come
ce ne venne l'occasione più di una volta: ma la coscienza dell'apostolico
nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno, al
fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità,
si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile,
perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari
e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti
ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione
stessa a perturbamento dei popoli.
2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema
necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai
proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni,
indegne dell'uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni
di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso
che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano,
avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda
della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il
male un'usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa.,
continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori.
Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un
piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all'infinita moltitudine
dei proletari un gioco poco meno che servile.
PARTE
PRIMA
IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO
La soluzione socialista inaccettabile dagli operai
3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri
l'odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti
i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo
del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà
da personale in collettiva, e con l'eguale distribuzione degli utili e
degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato.
Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli
stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette
i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici
dello Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale.
4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo
che si propone l'artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega
le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi
il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto
diritto, non solo di esigere, ma d'investire come vuole, la dovuta mercede.
Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio
assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine
altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente
proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto,
come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l'accumulare
pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all'operaio
la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e
la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare
il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione.
5. II peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia,
giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo
passa gran differenza tra l'uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso;
ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono
desta l'attività e ne svolgono le forze, dall altra terminano e circoscrivono
ogni suo movimento; cioè l'istinto della conservazione propria, e l'istinto
della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini,
basta al bruto l'uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé;
né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal
particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell'uomo. Possedendo egli
la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato,
almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale.
Ma l'animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la
natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta.
Il gran privilegio dell'uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue
essenzialmente dal bruto, è l'intelligenza, ossia la ragione. E appunto
perché ragionevole, si deve concedere all'uomo qualche cosa di più che
il semplice uso deí beni della terra, comune anche agli altri animali:
e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né
proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche
di quelle che l'uso non consuma.
La proprietà privata è di diritto naturale
6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell'umana natura.
Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre
il presente, anche l'avvenire, e per la sua libertà, l'uomo sotto la legge
eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso.
Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento
della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro.
Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra,
spetta all'uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo
deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché
i bisogni dell'uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni
e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato
all'uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità
del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente
la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v'è ragione di ricorrere
alla provvidenza dello Stato perché l'uomo è anteriore alto Stato: quindi
prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura
il diritto di provvedere a sé stesso.
7. L'aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere
umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché
quel dono egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune
e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo
determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all'industria degli uomini e
al diritto speciale dei popoli. La terra, per altro, sebbene divisa tra
i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi
uomo al mondo che non riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri
vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che
il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o
nel coltivare un terreno proprio, o nell'esercitare un'arte, la cui mercede
in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene
commutata. Ed è questa un'altra prova che la proprietà privata è conforme
alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della
vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra
a questa condizione, che l'uomo la coltivi e le sia largo di provvide
cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l'uomo impieghi
l'industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce
in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui
lasciò come impressa una impronta della sua personalità, sicché giustamente
può tenerla per sua ed imporre agli altri l'obbligo di rispettarla.
La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine
8.
Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto
trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie,
concedono bensì all'uomo l'uso del suolo e dei vari frutti dei campi,
ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano
la proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a
defraudare l'uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato
dalla mano e dall'arte del coltivato non è più quello di prima, da silvestre
è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono
talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili.
Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato
subentrasse a goderne i frutti? Come l'effetto appartiene alla sua causa,
così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto
il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con
l'occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il
fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata
è sommamenae consona alla natura dell'uomo e alla pacifica convivenza
sociale, l'ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli.
E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità
ed efficacia dalla stessa legge naturale(1), confermano tale diritto e
lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge
divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba
altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il
podere, non la serva, non il bue, non l'asino, non alcuna cosa di tutte
quelle che a lui appartengono(2).
La
libertà dell'uomo
9.
Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi
del consorzio domestico. Libera all'uomo è l'elezione del proprio stato:
Egli può a suo piacere seguire il consiglio evangelico della verginità
o legarsi in matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al coniugio
e nessuna legge umana può abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo
scopo a cui Iddio l'ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi
(3). Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola
ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni
indipendenti dallo Stato. Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto
di proprietà inerente all'individuo va applicato all'uomo come capo di
famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa
e completa è nel consorzio domestico la sua personalità.
Famiglia
e Stato
10.
Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della
prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli
una immagine di sé e quasi una espansione e continuazione della sua persona,
egli è spinto a provvederli in modo che nel difficile corso della vita
possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi
se non mediante l'acquisto dei beni fruttiferi, ch'egli poi trasmette
loro in eredità. Come la convivenza civile così la famiglia, secondo quello
che abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è quello
paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque,
per la scelta e l'uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla
sua legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società
civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico logicamente
e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne
debbono essere i diritti e i doveri. Che se l'uomo, se la famiglia, entrando
a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma
offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza
sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.
Lo
Stato e il suo intervento nella famiglia
11.
È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire
a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia
si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le
è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l'intervento dei
pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale.
Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra
i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciàscuno il suo,
poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e
tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato;
la natura non gli consente di andare oltre. La patria potestà non può
lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa
della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione,
per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi entrano
a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la
famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i
figli naturalmente qualcosa del padre... prima dell'uso della ragione
stanno sotto la cura dei genitori. (4) Ora, i socialisti, sostituendo
alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia
naturale e disciolgono la compagine delle famiglie.
La
soluzione socialista è nociva alla stessa società
12.
Ed oltre l'ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio
ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa
schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni,
alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto
ogni stimolo all'ingegno e all'industria individuale: e la sognata uguaglianza
non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria.
Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni
proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi
a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno,
altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque,
che nell'opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi
come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto
ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.
PARTE
SECONDA
IL VERO RIMEDIO:
L'UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI
A)
L'opera della Chiesa
13.
Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché
si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione
che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura
della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della
Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro
ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede
il concorso e l'efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire
dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari
che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo
che, se si prescinde dall'azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno
vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a
comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura
con gli insegnamenti suoi, non solo d'illuminare la mente, ma d'informare
la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni
migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli
e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate
insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi
degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a
questo scopo le stesse leggi e l'autorità dello Stato.
1
- Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
14.
Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare
la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali,
è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo
contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà
esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno,
la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste
inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condízioní
sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio,
perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi,
e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici,
è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo
d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora
avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell'animo, lo impose
poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità,
secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro;
mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (5). Similmente
il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili
a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia
o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque
il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è
forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro
che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra
di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano
per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa
migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare
altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.
2
- Necessità della concordia
15.
Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una
classe sociale nemica naturalmente dell'altra; quasi che la natura abbia
fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile;
cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che,
come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell'armonico
temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile
consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l'equilibrio.
L'una ha bisogno assoluto dell'altra: né il capitale può stare senza il
lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e
l'ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione
e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici,
il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.
3
- Relazioni tra le classi sociali
a) giustizia
16.
Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode
la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i
ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri
incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia,
quanto al proletario e all'operaio, sono questi: prestare interamente
e fedelmente l'opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non
recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa
stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla
in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose
grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite
rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere
gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana,
nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede
il lavoro non degrada l'uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado
di vivere onestamente con l'opera propria. Quello che veramente è indegno
dell'uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo
più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente
comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai
beni dell'anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all'operaio comodità
e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni
corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di
famiglia e dall'amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati
alle forze, o mal confacenti con l'età e con il sesso.
17.
Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede.
Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma
in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi
non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici,
e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede
è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la
mercede degli operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido
ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti (6). Da ultimo è
dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell'operaio né con
violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere
è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l'operaio e più
sacrosanta la sua piccola sostanza. L'osservanza di questi precetti non
basterà essa sola a mitigare l'asprezza e a far cessare le cagioni del
dissidio ?
b)
carità
18.
Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall'esempio di Cristo, mira
più in alto, cioè a riavvicinare il più possibile le due classi, e a renderle
amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere,
se l'animo non si eleva ad un'altra vita, ossia a quella eterna, senza
la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi
l'intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che
la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale
fondamento poggia tutto l'edificio della religione: cioè che la vera vita
dell'uomo è quella del mondo avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per
questi beni fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra
ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia
in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò
all'eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei
beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui
è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con
redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù
e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere
al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se persevereremo, regneremo
insieme (7). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori,
egli ne ha mitigato l'acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l'esempio
ma con la sua grazia e con la speranza del premio proposto, ci ha reso
più facile il patire. Poichè quella che attualmente è una momentanea
e leggera tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura
smisurato peso di gloria (8). I fortunati del secolo sono dunque avvertiti
che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità
avvenire, non che giovare, nuocciono (9); che i ricchi debbono tremare,
pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (10); che
dell'uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto
al Dio giudice.
c)
la vera utilità delle ricchezze
19.
In ordine all'uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina
che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione
dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione,
ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale dottrina
sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso legittimo
dal legittimo uso. Naturale diritto dell'uomo è, come vedemmo, la privata
proprietà dei beni e l'esercitare questo diritto é, specialmente nella
vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. E' lecito,
dice san Tommaso, anzi necessario all'umana vita che l'uomo abbia la proprietà
dei beni (11). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l'uso di tali
beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che,
per questo rispetto, l'uomo non deve possedere i beni esterni come propri,
bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all'altrui necessità.
Onde l'Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare
facilmente il proprio (12). Nessuno, Certo, é tenuto a soccorrere gli
altri con le cose necessarie a sé e ai suoi, anzi neppure con ciò che
è necessario alla convivenza e al decoro del proprio stato, perchè
nessuno deve vivere in modo non conveniente (13). Ma soddisfatte le necessità
e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi. Quello
che sopravanza date in elemosina (14). Eccetto il caso di estrema necessità,
questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana
il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma
sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di
Crísto, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e
insegna: E' più bello dare che ricevere (15), e terrà per fatta o negata
a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei
minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste (16). In conclusione,
chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni,
sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti,
di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro
della divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha dunque ingegno, badi
di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall'essere troppo
duro di mano nell'esercizio della misericordia; chi ha un'arte per vivere,
ne partecipi al prossimo l'uso e l'utilità (17).
d)
vantaggi della povertà
20.
Ai poveri poi, la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che rechi
vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò
questa verità con 1'esempio suo mentre, a salute degli uomini, essendo
ricco, si fece povero (18) ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso,
volle comparire ed essere creduto figlio di un falegname, anzi non ricusò
di passare lavorando la maggior parte della sua vita: Non è costui il
fabbro, il figlio di Maria? (19) Mirando la divinità di questo esempio,
si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell'uomo
è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune,
conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari;
che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio
dell'eterna beatitudine. Diciamo di più per gli infelici pare che Iddio
abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri
(20); in. vita amorosamente a venire da lui per conforto, quanti sono
stretti dal peso degli affanni (21); i deboli e i perseguitati abbraccia
con atto di carità specialissima. Queste verità sono molto efficaci ad
abbassar l'orgoglio dei fortunati e togliere all'avvilimento i miseri,
ad ispirare indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le distanze,
tanto care all'orgoglio, si accorciano; né riesce difficile ottenere che
le due classi, stringendosi la mano, scendano ad amichevole accordo.
e)
fraternità cristiana
21.
Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno paghe di una semplice
amicizia, ma vorranno darsi l'amplesso dell'amore fraterno. Poiché conosceranno
e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune;
che tutti tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere perfettamente
felici gli uomini e gli angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti
da Gesù Cristo e chiamati alla dignità della figliolanza divina, in modo
che non solo tra loro, ma con Cristo Signore, primogenito fra molti fratelli,
sono congiunti col vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno
che i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano
e che nessuno, senza proprio merito, verrà diseredato dal retaggio dei
beni celesti: perché se tutti figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio,
e coeredi di Gesù Cristo (22). Ecco 1'ideale dei diritti e dei doveri
contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito
ogni dissídio e non tornerebbe forse la pace?
4
- Mezzi positivi
a) la diffusione della dottrina cristiana
22.
Se non che la Chiesa, non contenta di additare íl rimedio, l'applica ella
stessa con la materna sua mano. Poiché ella é tutta intenta a educare
e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari
della sua dottrina scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi
e del Clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia
di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare
dai divini precetti. E in quest'arte, che é di capitale importanza,
poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti,
gli strumenti che adopera a muovere gli animi le furono dati a questo
fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono
penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini obbediscano
alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e
singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti
gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù.
b)
il rinnovamento della società
Basta
su ciò accennar di passaggio agli esempi antichi. Ricordiamo fatti e cose
poste fuori di ogni dubbio: cioè che per opera del cristianesimo fu trasformata
da capo a fondo la società; che questa trasformazione fu un vero progresso
del genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale,
e un perfezionamento non mai visto per l'innanzi né sperabile maggiore
per l'avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine
di questi benefizi, i quali, scaturiti da lui, a lui vanno riferiti. Avendo
il mondo mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell'incarnazione
del Verbo e dell'umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si
trasfuse nella civile società che ne fu permeata con la fede, i precetti,
le leggi di lui. Perciò, se ai mali del mondo v'è un rimedio, questi non
può essere altro che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un
solenne principio questo, che per riformare una società in decadenza,
è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l'essere, la perfezione
di ogni società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in modo
che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia il medesimo
che ha generato l'associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è
corruzione; tornare ad esso è salvezza. E questo è vero, come di tutto
il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la parte
più numerosa.
c)
la beneficenza della Chiesa
23.
Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente
rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla
vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari
emergano dal loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita.
E questo essa fa innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando
a tutti gli uomini la virtù. I costumi cristiani, quando siano tali davvero,
contribuiscono anch'essi di per sé alla prosperità terrena, perché attirano
le benedizioni di Dio, principio e fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia
della roba e la sete dei piaceri (23), veri flagelli che rendono misero
l'uomo nella abbondanza stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale,
suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai vizi,
che non solo consumano le piccole, ma anche le grandi sostanze, e mandano
in rovina i più lauti patrimoni.
24.
Ma vi è di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari
col creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo, e in questo
tanto si è segnalata, da riscuoter l'ammirazione e gli encomi degli stessi
nemici. Nel cuore dei primi cristiani la carità fraterna era così potente
che i più facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere
gli altri; tanto che non vi era tra loro nessun bisognoso (24). Ai diaconi,
ordine istituito appositamente per questo, era affidato dagli apostoli
l'ufficio di esercitare la quotidiana beneficenza e l'apostolo Paolo,
benché gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere
faticosi viaggi, per recare di sua mano ai cristiani poveri le elemosine
da lui raccolte. Tertullíano chiama depositi della pietà le offerte che
si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna adunanza, perché destinate
a soccorrere e dar sepoltura agli indigenti, sovvenire i poveri orfani
d'ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi (25). Da lì poco a poco si formò
il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio
della povera gente. La quale anzi, con nuovi e determinati soccorsi, venne
perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Giacché, madre comune dei
poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando dappertutto l'eroismo della
carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti,
che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto.
Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino di
questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la
beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità
cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se
non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore
santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana
dalla Chiesa.
B)
L'opera dello Stato
25.
A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano
altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi
ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell'ordine provvidenziale
che governa il mondo; poiché d'ordinario si vede che ogni buon effetto
è prodotto dall'armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende.
Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo
dello Stato non come è sostituito o come funziona in questa o in quella
nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi
della retta ragione, in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come
noi medesimi esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli
Stati (enc. Immortale Dei).
1
- Il diritto d'intervento dello Stato
26.
I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale
con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando
e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica
e privata prosperità. Questo infatti è l'ufficio della civile prudenza
e il dovere dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni
deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia,
dall'osservanza della religione e della giustizia, dall'imposizione moderata
e dall'equa distribuzione dei pubblici oneri, dal progresso delle industrie
e del commercio, dal fiorire dell'agricoltura e da altre simili cose,
le quali, quanto maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli.
Anche solo per questa via, può dunque lo Stato grandemente concorrere,
come al benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò
di suo pieno diritto e senza dar sospetto d'indebite ingerenze; giacché
provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto
maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza,
tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza degli operai.
a)
per il bene comune
27.
Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da vicino la questione:
che cioè lo Stato è una armoniosa unità che abbraccia del pari le infime
e le alte classi. I proletari né di più né di meno dei ricchi sono cittadini
per diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante
le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero.
Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cíttadíní e trascurare
l'altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere
degli operai; non facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda
a ciascuno il suo, Onde saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte
e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto
è in qualche maniera della parte (26). Perciò tra i molti e gravi doveri
dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere
ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità
la giustizia cosiddetta distributiva.
b)
per il bene degli operai
Sebbene
tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere
comune che poi, naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia
la cooperazione non può essere in tutti né uguale né la stessa. Per quanto
si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà
e disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi
il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori,
giudici, insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono
in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro la causa più prossima
ed efficace del bene comune, formano la parte principale della nazione.
Non possono allo stesso modo e con gli stessi uffici cooperare al bene
comune gli artigiani; tuttavia vi concorrono anch'essi potentemente con
i loro servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale, dovendo
essere nel suo conseguimento un bene perfezionativo dei cittadini in quanto
sono uomini, va principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in ogni
società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente abbondanza dei beni
corporali, l'uso dei quali è necessario all'esercizio della virtù (27).
Ora, a darci questi beni è di necessità ed efficacia somma l'opera e l'arte
dei proletari, o si applichi all'agricoltura, o si eserciti nelle officine.
Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità che il lavoro degli
operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che
il governo s'interessi dell'operaio, facendo si che egli partecipi ín
qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché
abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca
dunque al massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione
di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà
a tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria
coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo.
2
- Norme e limiti del diritto d'intervento
28.
Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano
assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all'uno e all'altra
tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e
gli altrui diritti. Tuttavia, i governanti debbono tutelare la società
e le sue parti. La società, perché la tutela di questa fu da natura commessa
al sommo potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge suprema,
ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti, poi, perché
filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che il governo è istituito
da natura non a beneficio dei governanti, bensì dei governati. E perché
il potere politico viene da Dio ed è una certa quale partecipazione della
divina sovranità, deve amministrarsi sull'esempio di questa, che con paterna
cura provvede non meno alle particolari creature che a tutto l'universo.
Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta
un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende
necessario l'intervento dello Stato.
29.
Ora, interessa il privato come il pubblico bene che sia mantenuto l'ordine
e la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla
legge di Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la
religione; che fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente
osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima l'altra;
che crescano sani e robusti i cittadini, atti a onorare e a difendere,
se occorre, la patria. Perciò, se a causa di ammutinamenti o di scioperi
si temono disordini pubblici; se tra i proletari sono sostanzialmente
turbate le naturali relazioni della famiglia; se la religione non é rispettata
nell'operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri;
se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l'integrità
deí costumi corre pericolo nelle officine; se la classe lavoratrice viene
oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da fatti contrari alla
personalità e dignità umana; se con il lavoro eccessivi o non conveniente
al sesso e all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi
casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità
delle leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige
l'intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non devono andare
al di là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo.
I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico
potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni.
Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo
speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso,
abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di
sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio
dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei
bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze
sue.
3
- Casi particolari d'intervento
a) difesa della proprietà privata
30.
Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza.
Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare
la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie,
bisogna che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la giustizia
consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia
né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba,
e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l'altrui. Certo,
la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione
onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono pochi coloro
i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni
costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga
dunque l'autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi
i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello
dello spogliamento.
b)
difesa del lavoro
1) contro lo sciopero
31.
Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono
non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e
frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano
danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai
comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d'ordinario danno
occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio,
poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male
con l'autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le
cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.
2)
condizioni di lavoro
32.
Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell'operaio, e prima di
tutto i beni dell'anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile,
non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare
la vita dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del
bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l'immagine e la somiglianza
divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto
all'uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all'utilità
sua le terre tutte ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta:
signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell'aria e tutti gli animali
che si muovono sopra la terra (28). In questo tutti gli uomini sono uguali,
né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi
e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (29). A nessuno è lecito
violare impunemente la dignità dell'uomo, di cui Dio stesso dispone con
grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che
è ordinato all'acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera
elezione potrebbe l'uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura,
ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti
dei quali sia libero l'esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente
inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo
nome non s'intenda uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale
inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco,
ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo
toglie l'uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo
al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Questa
è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio
con legge speciale, prescrisse all'uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli:
Ricordati di santificare il giorno di sabato (30) e che egli stesso insegnò
di fatto, quando nel settimo giorno, creato l'uomo, si riposò dalle opere
della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva
fatte (31).
33.
Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere
sottrarre il povero operaio all'inumanità di avidi speculatori, che per
guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose.
Non è giusto né umano esigere dall'uomo tanto lavoro da farne inebetire
la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura,
così l'attività dell'uomo è limitata e circoscritta entro confiní ben
stabiliti, oltre i quali non può andare. L'esercizio e l'uso l'affina,
a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo
al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino
le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità
del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione
e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono
dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo,
essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più
breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado
un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un'altra o del
tutto insopportabile o tale che sí sopporta con difficoltà. Infine, un
lavoro proporzionato all'uomo alto e robusto, non é ragionevole che s'imponga
a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non
ammetterli nelle officine prima che l'età ne abbia sufficientemente sviluppate
le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia
sbocciano simili all'erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e
allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così,
certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per
í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l'onestà del sesso
debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il
benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità
del riposo necessario all'operaio deve essere proporzionata alla quantità
delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l'uso
debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra
padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell'uno
e dell'altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo
lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo
stringono a Dio e a sé stesso.
3)
la questione del salario
34.
Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per
non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si
dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone,
pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro.
Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l'intera mercede
o l'operaio non presta tutta l'opera pattuita; e solo a tutela di questi
diritti, e non per altre ragioni, è lecito l'intervento dello Stato. A
questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire
né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto;
vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l'attività
umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla
conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (32). Ha dunque
il lavoro dell'uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di
essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del
tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere
necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all'uomo per il mantenimento
della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla
natura. Ora, se si guarda solo l'aspetto della personalità, non v'è dubbio
che può l'operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome
egli offre volontariamente l'opera, così può, volendo, contentarsi di
un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con
la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte,
ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui
nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza,
il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente
sí riducono al salario del proprio lavoro. L'operaio e il padrone allora
formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della
mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore
e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo
della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell'operaio,
frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità
o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti
dal proprietario o dall'imprenditore, volenti o nolenti debbono essere
accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia
protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l'orario
di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita
dell'operaio, affinché l'autorità non s'ingerisca indebitamente, specie
in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare
la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi
che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo
Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.
c)
educazione al risparmio
35.
Quando l'operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé stesso e
la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà
naturalmente a risparmiare e, assecondando l'impulso della stessa natura,
farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell'acquisto
di qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l'inviolabilità
del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed
efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo
diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari.
Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione
della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della
società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte
una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni
sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della
ricchezza, ed esercita pure nell'andamento dello Stato una grande influenza.
Dall'altra una moltítudíne misera e debole, dall'animo esacerbato e pronto
sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s'incoraggia l'industria
con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà
avvicinandosi poco a poco all'altra, togliendo l'immensa distanza tra
la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà
abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare
in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al
campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia,
non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come
questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo
e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioé l'attaccarnento
al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero,
se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro
che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà
non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà
privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato
non può annientarlo, ma solamente temperarne l'uso e armonizzarlo col
bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere
sotto pretesto di imposte.
C)
L'opera delle associazioni
1
- Necessità della collaborazione di tutti
36.
Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto
i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere
opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi
tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni
private destinate a prendersi cura dell'operaio, della vedova, dei figli
orfani, nei casi d'improvvisi infortuni, d'infermità, o di altro umano
accidente; i patronati per i fanciulli d'ambo i sessi, per la gioventù
e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti
e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni.
Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni,
e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero,
ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura,
le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste
corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere
formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia
miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e
di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi
sopra per mostrarne l'opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento
e la loro azione.
2
- Il diritto all'associazione è naturale
37.
Il sentimento della propria debolezza spinge l'uomo a voler unire la sua
opera all'altrui. La Scrittura dice: E' meglio essere in due che uno solo;
perchè due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto
dall'altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi
(33). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città
fortificata (34). L'istinto di questa naturale inclinazione lo muove,
come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente
e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissima
differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società
civile è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui
tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione. Perciò
è chiamata pubblica; per essa gli uomini si mettono in mutua comunicazione
al fine di formare uno Stato (35). Al contrario le altre società che sorgono
in seno a quella si dicono e sono private, perché hanno per scopo l'utile
privato dei loro soci. Società privata è quella che si forma per concludere
affari privati, come quando due o tre si uniscono a scopo di commercio
(36).
38.
Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro la Stato e ne
siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando,
non può lo Stato proibirne la formazione. Poíché íl dírítto di unírsí
ín società l'uomo l'ha da natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli,
non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe sé stesso,
perché l'origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta
appunto nella naturale socialità dell'uomo. Si danno però casi che rendono
legittimo e doveroso il divieto. Quando società particolari si prefiggono
un fine apertamente contrario all'onestà, alla giustizia, alla sicurezza
del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo Stato, o vietando
che si formino o sciogliendole se sono formate; è necessario però procedere
in ciò con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non
fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano
se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla
legge eterna di Dio (37).
39.
E qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di
tante specie a cui dà vita l'autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli;
e con quanto vantaggio del genere umano, lo attesta la storia anche ai
nostri giorni. Tali società, considerate al solo lume della ragione, avendo
un fine onesto, sono per diritto di natura evidentemente legittime. In
quanto poi riguardano la religione, non sottostanno che all'autorità della
Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi piú quelle competenza alcuna,
né rivendicarne a sé l'amministrazione; ha però il dovere di rispettarle,
conservarle e, se occorre, difenderle. Ma quanto diversamente si agisce,
soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato
ha leso i diritti di talí comunità, avendole sottoposte alle leggi civili
a private di giuridica personalità, o spogliate dei lora beni. Nei quali
beni la Chiesa aveva il diritto suo, come ognuno dei soci, e similmente
quelli che li avevano destinati per un dato fine, e quelli al cui vantaggio
e sollievo erano destinati. Non possiamo dunque astenerci dal deplorare
spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che vediamo proibite società
cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso che si proclama
altamente il diritto di associazione; mentre in realtà tale diritto vieni
largamente concesso a uomini apertamente congíuratí aí danni della religione
e dello Stato.
40.
Certe società diversissime, costituite specialmente di operai, vanno oggi
moltiplicandosi sempre più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar
l'origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata
da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con
organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico; costoro
con il monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi
a loro, a pagar caro il rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani
non hanno che due vie: o iscriversi a società pericolose alla religione
o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi coraggiosamente
a sì ingiusta e intollerabile oppressione. Ora, potrà mai esitare sulla
scelta di questo secondo partito, chi non vuole mettere a repentaglio
il massimo bene dell'uomo?
3
- Favorire i congressi cattolici
41.
Degnissimi d'encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze
dei tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni
degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il
benessere individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le relazioni
tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente radicata negli
uni e negli altri il senso del dovere e l'osservanza dei precetti evangelici;
precetti che, allontanando l'animo da ogni sorta di eccessi, lo inducono
alla moderazione e, tra la più grande diversità di persone e di cose,
mantengono l'armonia nella vita civile. A tal fine vediamo che spesso
si radunano dei congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono
le forze, si consultano intorno agli espedienti migliori, Altri s'ingegnano
di stringere opportunamente in società le varie classi operaie; le aiutano
col consiglio e i mezzi e procurano loro un lavoro onesto e redditizio.
Coraggio e protezione vi aggiungono i vescovi, e sotto la loro dipendenza
molti dell'uno e dell'altro clero attendono con zelo al bene spirituale
degli associati. Non mancano finalmente i cattolici benestanti che, fatta
causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese per fondare e largamente
diffondere associazioni che aiutino l'operaio non solo a provvedere col
suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l'avvenire
un riposo onorato e tranquillo. I vantaggi che tanti e sì volenterosi
sforzi hanno recato al pubblico bene, sono così noti che non occorre parlarne.
Di qui attingiamo motivi a bene sperare dell'avvenire, purché tali società
fioriscano sempre più, e siano saggiamente ordinate. Lo Stato difenda
queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell'intimo
della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce
da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano.
4
- Autonomia e disciplina delle associazioni
42.
Questa sapiente organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria
perché vi sia unità di azione e d'indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini,
come l'hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere
altresì uguale diritto di scegliere per i loro consorzi quell'ordinamento
che giudicano più confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle
singole sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise,
dovendosi determinare piuttosto dall'indole di ciascun popolo, dall'esperienza
e abitudine, dalla quantità e produttività dei lavori, dallo sviluppo
commerciale, nonché da altre circostanze, delle quali la prudenza deve
tener conto. In sostanza, si può stabilire come regola generale e costante
che le associazioni degli operai si devono ordinare e governare in modo
da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine,
il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il
maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale. È evidente
poi, che conviene aver di mira, come scopo speciale, il perfezionamento
religioso e morale, e che a questo perfezionamento si deve indirizzare
tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni degenerano facilmente
in altra natura, né si mantengono superiori a quelle in cui della religione
non si tiene conto alcuno. Del resto, che gioverebbe all'operaio l'aver
trovato nella società di che vivere bene, se l'anima sua, per mancanza
di alimento adatto, corresse pericolo di morire? Che giova all'uomo l'acquísto
di tutto il mondo con pregiudizio dell'anima sua? (38). Questo, secondo
l'insegnamento di Gesù Cristo, é il carattere che distingue il cristiano
dal pagano: I pagani cercano tutte queste cose... voi cercate prima di
tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e gli altri beni vi saranno
dati per giunta (39). Prendendo adunque da Dio il principio, si dia una
larga parte all'istruzione religiosa, affinché ciascuno conosca i propri
doveri verso Dio; sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per
salvarsi; e sia ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni
corruttrici. L'operaio venga animato al culto di Dio e all'amore della
pietà, e specialmente all'osservanza dei giorni festivi. Impari a venerare
e amare la Chiesa, madre comune di tutti, come pure a obbedire ai precetti
di lei, e a frequentare i sacramenti, mezzi divini di giustificazione
e di santità.
5
- Diritti e doveri degli associati
43.
Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione, è aperta la
strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della
loro convivenza e del loro benessere economico. Gli incarichi si distribuiscano
in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità
non pregiudichi l'unità. E' sommamente importante che codesti incarichi
vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente determinati, perché
nessuno dei soci rimanga offeso. I beni comuni della società siano amministrati
con integrità, così che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo
i bisogni; e i diritti e i doveri dei padroni armonizzino con i diritti
e i doveri degli operai. Quando poi gli uni o gli altri si credono lesi,
è desiderabile che trovino nella stessa associazione uomini retti e competenti,
al cui giudizio, in forza degli statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà
ancora provvedere che all'operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano
fondi disponibili per venire in aiuto dí ciascuno, non solamente nelle
improvvise e inattese crisi dell'industria, ma altresì nei casi di infermità,
di vecchiaia, di infortunio. Quando tali statuti sono volontariamente
abbracciati, si é già sufficientemente provveduto al benessere materiale
e morale delle classi inferiori; e le società cattoliche potranno esercitare
non piccola influenza sulla prosperità della stessa società civile. Dal
passato possiamo prudentemente prevedere l'avvenire. Le umane generazioni
si succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente,
perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la
quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si
prefisse nella creazione della umana famiglia. Agli inizi della Chiesa
i pagani stimavano disonore íl vivere dí elemosine o dí lavoro, come tacevano
la maggior parte dei cristiani. Se non che, poveri e deboli, riuscirono
a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio dei potenti. Era
bello vederli attivi, laboriosi, pacifici, giusti, portati come esempio,
e singolarmente pieni di carità. A tale spettacolo di vita e di condotta
si dileguò ogni pregiudizio, ammutolì la maldicenza dei malevoli, e le
menzogne dí una inveterata superstizione cedettero íl posto alla verità
cristiana.
6
- Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni
44.
Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui buona o cattiva
soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani la sceglieranno
bene, se uniti in associazione, e saggiamente diretti, seguiranno quella
medesima strada che con tanto vantaggio di loro stessi e della società,
tennero i loro antenati. Poiché, sebbene così prepotente sia negli uomini
la forza dei pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del
volere non ha spento in essi il senso dell'onesto, non potranno non provare
un sentimento benevolo verso gli operai quando li scorgono laboriosi,
moderati, pronti a mettere l'onestà al di sopra del lucro e la coscienza
del dovere innanzi a ogni altra cosa. Ne seguirà poi un altro vantaggio,
quello cioè di infondere speranza e facilità di ravvedimento a quegli
operai ai quali manca o la fede o la buona condotta secondo la fede. Il
più delle volte questi poveretti capiscono bene di essere stati ingannati
da false speranze e da vane illusioni. Sentono che da cupidi padroni vengono
trattati in modo molto inumano e quasi non sono valutati più di quello
che producono lavorando; nella società, ín cui si trovano irretiti, invece
di carità e di affetto fraterno, regnano le discordie intestine, compagne
indivisibili della povertà orgogliosa e incredula. Affranti nel corpo
e nello spirito, molti dí loro vorrebbero scuotere íl giogo dí si abietta
servitù; ma non osano per rispetto umano o per timore della miseria. Ora
a tutti costoro potrebbero recare grande giovamento le associazioni cattoliche,
se agevolando ad essi il cammino, li inviteranno, esitanti, al loro seno,
e rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e soccorso.
CONCLUSIONE
La
carità, regina delle virtù sociali
45.
Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla
soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta
e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura
di un male già tanto grave. I governi vi si adóperino con buone leggi
e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti
i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano,
nei limiti del giusto, quanto póssono; e poiché, come abbiamo detto da
principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione,
si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana,
senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si dimostreranno
scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e
in nessun modo l'opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto
più sarà libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che
hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la
forza dell'animo e la generosità dello zelo i ministri del santuario;
e guidati dall'autorità e dall'esempio vostro, venerabili fratelli, non
si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del
Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto
alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la
carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev'essere
principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire quella
carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre
a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l'orgoglio
e l'egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle
parole: La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto:
tutto soffre, tutto sostiene (40). Auspice dei celesti favori e pegno
della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro
clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l'apostolica
benedizione.
Dato
a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimo del nostro
pontificato.
LEONE
PP. XIII
(1)
Cfr. S. Th. I-I, q. 95, a. 4.
(2) Deut 5,21.
(3) Gen 1,28.
(4) S. Th. II-II, q.
10, a. 12.
(5) Gen 3,17.
(6) Giac 5,4.
(7) 2 Tim 2,12.
(8) 2Cor 4,17.
(9) Cfr. Mat 19,23-24.
(10) Cfr. Luc 6,24-25.
(11) S. Th. III-II,
q. 66, a. 2.
(12) Ivi.
(13). S. Th. II-II,
q. 32, a. 6.
(14) Luc 11,41.
(15) At 20,35.
(16) Mat 25,40.
(17) S. Greg. M., In
Evang. hom 9, n. 7
(18) 2Cor 8,9.
(19) Mar 6,3.
(20) Cfr. Mat 5,3.
(21) Mat 11,28.
(22) Rom 8,17.
(23) Cfr. 1Tim 6,10.
(24) At 4,34.
(25) Apolog, 2.39.
(26) S. Th. II-II,
q. 6l, a. 1 ad 2.
(27) S. Th., De reg,
prínc. I,17.
(28) Gen 1,28.
(29) Rom 10,12.
(30) Es 20,8.
(31) Gen 2,2.
(32) Gen 3,19.
(33) Eccl 4,9-10.
(34) Prov 18,19.
(35) S, Th., Contra
impugn. Dei cultum et religionem, c. II.
(36) Ivi.
(37) Cfr. S. Th. I-II,
q. 13, a. 3.
(38) Mat 16,26.
(39) Mat 6,32-33.
(40) 1 Cor 13,4-7.
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